Sabato 12 dicembre 2015 è stato reso noto il documento contenente l’accordo firmato a Parigi da 195 paesi (quasi tutti quindi) che hanno partecipato per due settimane al tavolo di discussione della XXI Conferenza delle Parti (COP 21) indetta dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC): Rispetto ai contenuti di questo accordo vi sono state reazioni diverse e contrastanti: molte organizzazioni lo hanno salutato con soddisfazione sottolineandone gli aspetti innovativi che mai prima di oggi si erano potuti riscontrare nell’ambito della lotta al cambiamento climatico; altri soggetti hanno assunto un atteggiamento più sospettoso, fino a scendere nelle vie di Parigi per manifestare la loro insoddisfazione per la scarsa incisività delle decisioni prese in quella sede. In realtà non ci si può meravigliare di queste due reazioni, poiché da sempre la politica ci ha abituati ad una più che lenta assimilazione degli obiettivi del movimento ambientalista: molte le promesse, scarsi i risultati. Il clima continua ad alterarsi ad una velocità tale che possiamo percepire i cambiamenti sulla nostra pelle, nonostante vi siano stati numerosissime occasioni in cui gli stati abbiano giurato di fermare questo scempio ambientale. Ne ricordiamo solo i principali: Rio de Janeiro (1992), Kyoto (1997), Johannesburg (2002), Copenaghen (2009).
Non va sottovalutato il fatto che negli anni più recenti si è verificato un cambiamento che fa sperare al meglio. Il mondo scientifico è diventato molto più coeso nel temere le minacce ambientali legate alle emissioni climalternati e anche molto più drastica nel valutare le conseguenze di una politica che non fosse in grado di affrontare il problema. Il Comitato intergovernativo per i cambiamenti climatici (IPCC), ossia l’organo scientifico più autorevole in materia di riscaldamento del pianeta, nel suo ultimo rapporto pubblicato nel 2013 ha evidenziato chiaramente che, qualora si dovesse proseguire con i trend attuali, alla fine di questo secolo si potrebbero raggiungere aumenti delle temperature medie globali tra i 2,6 e i 4,8 rispetto alla “condizione presente”, livelli dei mari più elevati di 0.45 o addirittura 0.82 metri rispetto al presente e uno sconvolgimento dell’andamento meteorologico. Sempre secondo questa fonte al fine di eliminare gli effetti più gravi sull’ambiente i paesi industrializzati devono far sì che non venga superato il limite di 2 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali o, nel migliore dei casi, il valore di 1,5. Ciò può essere fatto solo se incominciamo e a ridurre globalmente le emissioni entro il 2023 per portarle a zero nel 2073. Da tener presente che l’aumento della temperatura media globale raggiunto sino a ora è già di di 0.85 gradi, il che spiega perché gli specialisti del clima temono che la situazione sia già ora seriamente compromessa (indietro non si torna) e perché premono per un’inversione di tendenza in tempi così rapidi (2023).
Di fronte a questo scenario che, se diamo credito alla scienza, appare di dimensioni drammatiche, la conferenza di Parigi cosa propone concretamente? Possiamo dire che siamo sulla buona strada? Che è stata avviata la soluzione del problema del riscaldamento globale?
A parer nostro, la risposta corretta è: no. Questa risposta però non ci deve far ignorare il fatto che, nel quadro delle speranze per un futuro migliore, qualcosa che non deve essere sottovalutato è comunque cambiato. Cerchiamo quindi di capire gli aspetti di questa realtà a due facce.
Il documento di Parigi conferma l’obiettivo dei 2 gradi centigradi e se possibile di 1,5 gradi, e da questo punto di vista si allinea completamente alle raccomandazioni dello IPCC. A ciò va aggiunto che a questo obiettivo nessuno dei partecipanti si è esplicitamente sottratto come invece si verificò a Kyoto quando alcuni paesi furono esentati dalla firma del protocollo (i paesi del terzo mondo quali Cina, Messico ed altri) e altri importanti invece rifiutarono di firmarlo (Usa, Federazione Russa). E anche come accadde a Copenhagen dove, pur avendo le parti raggiunto in apparenza un accordo quadro, la conferenza non si concluse con la firma di un protocollo, e quindi con un’assunzione di responsabilità. A dire il vero a questo fallimento si sono succedute iniziative in vari ambiti in cui, soprattutto da parte dei grandi inquinatori, si è sottolineata l’esigenza di un maggior controllo delle emissioni di gas serra. In particolare i tra grandi inquinatori hanno fatto sapere quali fossero i loro obiettivi nel campo della mitigazione: la Cina (responsabile di 8.6 Gt di CO2 annuo, dati 2014 OECD) ha dichiarato di voler raggiungere il punto di svolta o di massima emissione nel 2030 per poi diminuire le emissioni. Per gli USA (6.2 Gt) Obama ha dichiarato che nel 2025 gli USA avrebbero diminuito del 26-28% le loro quote rispetto alle emissioni del 2005. Infine la UE (3.3 Gt) propose di scendere entro il 2030 al 40% rispetto al livello registrato nel 1990. Tutti i questi casi, che coprono, se messi assieme, più del 66% delle emissioni globali, evidenziano un importante impegno nella direzione della riduzione delle emissioni, ma comunque insufficiente a soddisfare gli obiettivi posti dal gruppo IPCC e dalla stessa conferenza di Parigi. Si è stimato che, qualora queste politiche fossero messe in atto, il risultato non potrebbe essere inferiore ai 3 gradi centigradi a fine secolo, quindi oltre quella soglia dei 2 gradi sola in grado di assicurare una certa tranquillità.
Quindi la prima cosa da chiarire nel prossimo futuro, è se i grandi inquinatori intendono adeguare e in che modo le loro politiche di mitigazione. Nell’accordo ci sono alcune cose che fanno sperare bene, altre meno. Tra le positive vi è il fatto che i paesi firmatari dovranno in futuro rendicontare ogni cinque anni alla Conferenza delle Parti quali sono i loro programmi per raggiungere l’obiettivo dei 2 gradi o anche dell’1,5. La Carta prevede che debbano farlo anche in piena trasparenza decisionale e sarà un comitato di valutazione di tecnici nominati dalla Conferenza ad informare ogni anno la collettività dei firmatari e il mondo intero sui progressi consegui, dei quali la prima valutazione collettiva dovrà esser fatta nel 2023.
Pur tuttavia non si possono ignorare alcuni evidenti limiti di questo accordo:
Non esistono scadenze precise e perentorie, l’unica indicata per fare il punto della situazione, ossia il 2023, è in evidente contrasto con la stessa data indicata dal panel degli esperti mondiali (vedi sopra) come limite massimo per invertire la tendenza nefasta attuale. In altre parti del documento si pone addirittura come termine temporale la seconda metà di questo secolo in cui (art.4) le parti dovranno raggiungere all’interno dei loro territori un equilibrio tra le emissioni e i sistemi di “sequestro” delle medesime.
Viene fatta tutta una serie di raccomandazioni di carattere burocratico (monitoraggio, rendicontazione, revisione, adattamento, innovazione, partecipazione, trasparenza, sostenibilità, cooperazione …), ma non vi è alcun riferimento ai settori dove si concentrano le fonti di inquinamento e alle possibili soluzioni, non vi è alcun cenno al sistema delle innovazioni legislative necessarie per affrontare questi temi, né a possibili autovalutazioni rispetto alla prospettiva dell’inversione di tendenza. Pare che tutto si possa fare senza introdurre nuovi obblighi, limiti o divieti.
Com’è stato detto da molti, manca infine un regime sanzionatorio, per chi non dà seguito agli impegni presi. Nello stesso documento sono presenti varie pagine contenenti sollecitazioni e richiami rivolti ai paesi che non avevano ottemperato agli impegni presi nelle assemblee precedenti. Ciononostante all’art. 15 si precisa che il comitato di valutazione istituito in seguito a questo accordo non dovrà assumere atteggiamenti punitivi!!
In povere parole chi legge questo documento non può nascondere un certo disagio che, da un lato, deriva dal doversi confrontare con il solito linguaggio delle Nazioni Unite, che rispecchia di più la volontà di preservare questa istituzione dalle critiche e dal declino che a intervenire senza esitare sui problemi del mondo: le Nazioni Unite tentano a fatica, riuscendovi solo in parte, a darsi la dignità di un organo di governo globale delle grandi contraddizioni dell’epoca in cui viviamo. Dall’altro lato il disagio deriva dal dover constatare che, mentre ci sono fonti autorevoli che ci dicono che non abbiamo più tempo, ci si sta avviando su questa strada con una certa incomprensibile addirittura colpevole calma: è vero che i governi incominciano a muoversi, ma si potrebbe affermare che siamo ancora in una fase iniziale, poco decisi e soprattutto ancora troppo deboli per opporsi a chi ha fatto finora, è proprio il caso di dirlo, il buono e il cattivo tempo.
Leggi qui il commento alle conclusioni di COP21 di Mauro Albrizio, direttore ufficio europeo Legambiente, che ha seguito fin dall’inizio tutta l’evoluzione dell’accordo.