Documento presentato al Direttivo nazionale Legambiente del 7 febbraio 2010
L’acqua è un bene comune, il suo utilizzo deve rispondere a criteri di utilità pubblica e
Legambiente è assolutamente contraria ad ogni norma che obblighi alla privatizzazione del
servizio idrico nel nostro Paese. Un tema quello della privatizzazione dell’acqua, tornato
improvvisamente di attualità con l’approvazione della legge comunitaria alla fine del 2009 che
prevede l’obbligo di affidare tramite gara i servizi idrici. Beninteso, alle gare potranno partecipare
teoricamente anche le imprese pubbliche: in base al nuovo decreto è il meccanismo di affidamento a
cambiare, non la proprietà dell’impresa, che potrà essere, come è stato finora, pubblica, privata o
mista ma è chiara la volontà di indirizzarsi verso la privatizzazione di tutti i servizi pubblici
comprendendo fra questi anche l’acqua.
Ma l’attenzione verso il tema della privatizzazione dell’acqua in realtà non è mai del tutto venuta
meno. Anche se sull’argomento grava l’estrema difficoltà di vedere la questione rappresentata nei
suoi, tanti e indiscutibili aspetti, fuori dalle opposte tifoserie di chi idealizza la gestione pubblica
dell’acqua, come se fosse garanzia di servizio equo ed efficiente, e di chi idolatra quella privata.
Per questo può essere utile ricapitolare almeno qualcuno di questi aspetti, indispensabili per
formarsi un giudizio equilibrato.
1. In Italia per molti decenni l’acqua è stata distribuita agli utenti da soggetti interamente
pubblici, ma ciò non ha impedito che questo “bene comune” venisse amministrato in modi
inappropriati e anche iniqui. Sono eredità di questa lunga stagione lo stato fatiscente della nostra
rete acquedottistica specialmente al sud, il fatto sicuramente anomalo che in un paese relativamente
abbondante di risorse idriche centinaia di migliaia di persone ancora oggi abbiano l’acqua razionata,
l’inadeguata rete di fognatura e depurazione di cui sono sprovvisti ancora oggi il 30% degli italiani.
Non va dimenticato però che ci sono state anche gestioni pubbliche che in alcune parti del Paese
hanno garantito un servizio efficiente e efficace.
2. L’acqua in Italia costa troppo poco, negli usi civili come in agricoltura, e anche per questo
se ne consuma troppa. Il prezzo medio dell’acqua domestica, che pure negli ultimi anni è
sensibilmente cresciuto e che oggi è di poco superiore a un euro a metro cubo, resta tre volte più
basso che in Francia e quattro volte più basso che in Germania. Decisamente superiore alla media
europea è invece il consumo di acqua potabile per usi civili, che in quasi tutte le città italiane supera
i duecento litri giornalieri per abitante. Fatto salvo l’accesso universale al servizio e quindi la
garanzia della fornitura di un minimo vitale per ciascuno, il prezzo dell’acqua va fissato a un
livello che tenga conto che si tratta di un bene scarso, finito, probabilmente destinato a
scarseggiare sempre di più per effetto dei cambiamenti climatici, e dunque da consumarsi
parsimoniosamente.
3. Distinguere in modo rigido, come fanno molti paladini della privatizzazione, tra proprietà
dell’acqua che deve rimanere pubblica (come peraltro sancito da innumerevoli norme di legge e
convenzioni internazionali), e gestione del servizio che va affidata ai privati, è una formula astratta.
Se come sta avvenendo in quasi tutti i casi di privatizzazione del servizio, i “privati” che
gestiscono l’acqua sono grandi imprese multinazionali mille volte più strutturate e influenti degli
enti pubblici (comuni, consorzi di comuni, Ato) “custodi” delle reti e dell’efficienza, dell’efficacia,
dell’equità del servizio, questo rende assai complicato per i “controllori” fare valere l’interesse
pubblico nei confronti dei “controllati”, e presenta il forte rischio che i gestori privati incassino i
profitti della vendita del prodotto-acqua e ai controllori pubblici resti l’onere, in Italia quanto mai
pesante, della modernizzazione e della manutenzione delle reti.
4. Non è vero che l’Europa impone agli stati membri la privatizzazione dei servizi idrici. In
base alle leggi comunitarie, ogni paese deve affidare al mercato la gestione dei servizi pubblici
locali “di rilevanza economica”, ma a decidere se l’acqua rientri o no in questa categoria sono i
singoli Stati. Così in Europa ci sono paesi dove la privatizzazione dei servizi idrici si è quasi del
tutto compiuta, altri dove l’acqua è gestita tuttora da soggetti pubblici, altri ancora dove realtà
territoriali anche molto rilevanti che avevano optato per la privatizzazione ora stanno
ripubblicizzando la gestione dell’acqua (il caso più noto e importante è quello di Parigi).
5. Il modello di gestione idrica urbana deve essere profondamente rinnovato. Da oltre un
decennio, ad occhi esperti di tutto il mondo (www.otterwasser.de/english/sane.htm), risulta sempre
più chiaro che il modello di gestione delle acque nelle nostre città – basato su “prelievo,
distribuzione, utilizzo, fognatura, depuratore, restituzione al corpo idrico” – non è sostenibile,
perché comporta un uso eccessivo di risorse idriche di altissima qualità (chi ha detto che per
scaricare un WC si debba usare acqua potabile?), perché produce inquinamento che può essere solo
parzialmente ridotto ricorrendo alla depurazione, perché non considera la possibilità di usare le
acque di pioggia e le acque grigie depurate, perché non si cura di riutilizzare risorse preziose come
l’azoto e il fosforo contenute nelle “acque di scarico”.
Quanto detto fin’ora dimostra che sono infondate tanto l’equazione tra gestione pubblica e
uso equo ed efficace del “bene comune” acqua, quanto quella tra privatizzazione e gestione
efficiente. Allora, molto meglio sarebbe lasciare a Comuni e Regioni (a queste ultime, tra l’altro,
la nostra Costituzione riconosce competenze rilevanti in materia) la scelta su come sia meglio
gestire i servizi idrici, tenendo ben presente che si tratta di un bene non privatizzabile che non
deve sottostare a criteri mercantili. Gli Enti locali devono mettere in campo una forte, autorevole,
indipendente autorità pubblica chiamata a controllare che le gestioni rispondano ai criteri di un uso
socialmente equo e ambientalmente sostenibile dell’acqua.
È su questo aspetto che Legambiente deve fare sentire la sua voce, sostenendo che la questione
che l’acqua, bene comune, prima di tutto deve essere pulita: una sfida collegata alla scelta del
modello di gestione dei servizi idrici visto che chi gestisce reti e servizi idrici deve anche farsi
carico dei servizi di fognatura e depurazione.
Ma la sfida ambientale della gestione della risorsa idrica non si ferma qui: si deve passare dalla
“gestione della domanda” alla “pianificazione dell’offerta”, cioè occorre superare l’approccio
per cui prima si sommano le richieste idriche (industriali, agricole, civili) e poi si cerca
disperatamente di soddisfarle, partendo invece dalla disponibilità idrica, bacino per bacino, e in
seguito pianificare conseguentemente le attività. Un passaggio che deve essere preceduto dalla
redazione di un bilancio di bacino (come da legge 183 e direttiva 2000/60) aggiornato a livello
nazionale, un quadro sulla disponibilità della risorsa, usi e consumi visto che gli ultimi dati completi
risalgono al 1999 (rapporto IRSA-CNR Un futuro per l’acqua in Italia) a cui hanno fatto seguito
solo alcuni aggiornamenti a scala di bacino o regionali.
Mentre fornire buona acqua a tutti è una “mission” sostenuta da ragioni di consenso (nel caso delle
gestioni pubbliche) o di minimizzazione del rapporto costi/profitti (nel caso delle gestioni private),
l’altra faccia del ciclo dell’acqua, quella delle reti scolanti e degli impianti di depurazione, non
beneficia né di consenso (quale sindaco pensa di vincere o perdere le elezioni promettendo di
rimettere in sesto la rete fognaria, o di migliorare il depuratore comunale?), né di vantaggio
economico (fognature e depurazione sono solo voci di costo, da comprimere). La strada del
risanamento idrico in Italia è dunque tutta in salita, in modo indifferente dalla tipologia di gestione
dei servizi idrici (civili, ma anche agricoli e industriali): essa dipende dall’imposizione di nuove
regole e dalla capacità (in capo al sistema pubblico) di farle rispettare.
Se non saremo capaci di portare questa priorità all’interno della discussione sulle gestioni idriche, il
nostro non sarà un contributo utile ad elevare il dibattito, tutto schiacciato su posizioni ideologiche:
i fiumi e le falde del nostro Paese sono ancora inquinate, anche le fogne “perdono” e non solo gli
acquedotti, i depuratori sono ovunque inadeguati, la gestione dei corpi idrici naturali è tutta
orientata all’artificializzazione e all’eccesso di sfruttamento della risorsa: la distanza tra lo stato di
salute delle nostre acque e le scadenze imposte dalle direttive comunitarie aumenta ad ogni giorno
che passa.
L’acqua non è solo quella cosa che esce dal rubinetto di casa, ma anche quella che scroscia sui
tetti quando piove e finisce impropriamente nelle fogne, quella che si trova nei fiumi, nei laghi e nei
mari, quella che viene usata per irrigare i campi o raffreddare gli impianti delle industrie, quella che
giace nel sottosuolo. L’acqua non è un bene pubblico e men che meno privato, ma un bene comune,
di cui dobbiamo assumerci la responsabilità, come cittadini e come ambientalisti.
Non possiamo rivendicare una pubblicità dell’acqua fino al momento in cui giunge al nostro
rubinetto, salvo dimenticarcene dal momento in cui essa esce dallo scarico del lavandino o del WC.
L’acqua è un diritto, ma anche una responsabilità di cui dobbiamo farci carico, dall’esercizio di
questa responsabilità dipende la qualità di fiumi, laghi e acque marine costiere. Senza questa
dichiarazione di responsabilità perde senso qualsiasi adesione a movimenti e comitati per l’acqua
pubblica. Se rispettiamo l’acqua, altri potranno usarla dopo di noi, e altri potranno fruire di ambienti
acquatici non inquinati e accoglienti per l’uomo e le specie animali e vegetali che li popolano. Del
resto, cos’altro chiedono le nostre campagne e vertenze sulla qualità delle acque, si tratti di Goletta
Verde, Goletta dei Laghi o delle campagne sulla qualità delle acque fluviali?
Bisogna dire che la nuova legge non cambia il quadro, anzi lo peggiora fortemente, perché non
compie alcun passo avanti verso la risoluzione dei veri problemi del settore idrico, rinviando
semmai di altri due-tre anni almeno l’avvio a regime del sistema. Anni che andranno perduti tra
bandi di gara, carte da bollo, ricorsi al Tar, sgambetti reciproci tra gli aspiranti candidati. Le aziende
saranno impegnatissime nel preparare offerte e stringere alleanze, e la gestione continuerà a
navigare a vista. A rimanere al palo saranno, ancora una volta, gli investimenti, che già oggi
scontano ritardi enormi. La riforma del 1994, secondo il legislatore, doveva andare a regime in un
paio d’anni al massimo: ne sono passati sedici, nel corso dei quali gli investimenti fatti sono risultati
inadeguati. E anche ora che faticosamente la farraginosa macchina messa in piedi dalla legge Galli
si è messa in moto, i dati mostrano che gli investimenti effettivamente realizzati sono meno della
metà di quanto i piani avevano previsto. Nel frattempo, incalzano le procedure di infrazione per le
direttive europee che non abbiamo ancora incominciato ad attuare, e i nostri fiumi e laghi soffrono
per l’inadeguatezza di un sistema di depurazione fatiscente.
34 anni di passi avanti: i capisaldi da non mettere in discussione
La materia idrica è stata una delle prime a dotarsi di una legislazione di tutela ambientale nel senso
moderno del termine. La Legge Merli del 1976 fu la risposta, adeguata per l’epoca, ad un fenomeno
di inquinamento grave e fortemente percebile. Nel tempo sono emersi crescenti e più consapevoli
esigenze, connesse alla comprensione della caratteristiche della risorsa idrica. I principi su cui oggi
vi è generale e convinta condivisione non sono affatto un dato scontato, ma conquiste rese possibile
dalla crescita di sensibilità e consapevolezza ambientale, che noi stessi abbiamo contribuito ad
alimentare con le nostre battaglie e campagne ambientaliste.
Vale la pena di ricapitolarli brevemente:
− L’acqua è risorsa limitata ma, fondamentalmente, rinnovabile, e ciò dipende dal
funzionamento di un ciclo naturale, sul quale si innesta il ciclo dell’utilizzo (civile, agricolo e
industriale) caratterizzato da prelievo, impiego e restituzione. La ‘legge Galli’ del 1994 articola il
sistema della governance dell’acqua sulla base della consapevolezza circa il funzionamento del
ciclo dell’acqua, includendo la responsabilità sulla restituzione delle acque utilizzate, per cui chi
si fa carico del prelievo deve garantire anche la restituzione secondo adeguati standard. Nel ciclo
idrico integrato l’autorità d’ambito sovrintende, pianifica e monitora l’operato delle aziende
idriche. Le aziende, per incarico e sotto sorveglianza degli Ato, sono tenute perciò a farsi carico
sia di quantità e qualità dell’approvvigionamento idrico, sia della restituzione delle acque usate
che deve avvenire in modo compatibile con le caratteristiche del corpo recettore.
− L’acqua è un bene comune. Il principio è affermato chiaramente nella nostra legislazione, che
stabilisce anche la priorità del soddisfacimento dei bisogni fondamentali dell’individuo ogni qual
volta insorga un conflitto tra più utilizzatori della stessa risorsa. Nessuno oggi mette in
discussione che l’acqua sia un bene della collettività nel suo complesso e come tale indisponibile
ad un uso esclusivo a scopo di profitto (con l’eccezione, eclatante, delle concessioni per le acque
minerali…), anche se nel campo delle concessioni ad uso agricolo e industriale questo principio è
ancora molto lontano dall’essere realmente applicato.
− Chi inquina paga. E’ un principio generale, assunto dalla legislazione comunitaria come
riferimento-guida con il duplice obiettivo di rendere non vantaggiosi gli inquinamenti evitabili, e
di recuperare risorse per le azioni di risanamento
− Full cost recovery. E’ il principio introdotto dalla direttiva quadro in materia idrica (2000/60) che
stabilisce che le gestioni idriche devono farsi carico dei relativi costi, attraverso tariffe che
imputino agli utilizzatori appropriate quote di pagamento del servizio, anche e soprattutto per
scoraggiare usi impropri e sprechi, oltre che in attuazione del principio “chi inquina paga”
(facendosi quindi carico anche dei costi “esterni” che, se non coperti, determinano gravi impatti
sui corpi idrici). Lo scopo è quello di evitare che sia la fiscalità generale a farsi carico dei costi di
gestione del servizio idrico e che invece questo sia operato secondo principi di efficienza e
sostenibilità ambientale, distribuendone equamente i costi sugli utenti.
− Obiettivi di qualità dell’acqua nei corpi idrici: la stessa direttiva impone a tutti gli stati
membri l’obiettivo di uno stato di qualità ‘buono’ dei corpi idrici da perseguire entro il 2015. Un
simile stato di qualità richiede enormi investimenti su due versanti: la riduzione dei prelievi e il
miglioramento delle caratteristiche delle acque restituite dopo l’uso, sia in termini quantitativi
(riduzione delle portate non trattate e delle perdite della rete scolante) che qualitativi
(efficientamento e upgrading degli schemi depurativi), anche prevedendo il riuso delle acque
trattate.
La piena attuazione di questi principi richiede in Italia:
− l’estensione di un sistema di tariffe “full cost recovery” a tutti gli utilizzi (non solo civili, ma
anche e soprattutto agricoli e industriali) al fine di assicurare la copertura integrale dei costi di
gestione delle reti e degli impianti nonché la garanzia di copertura dei ‘costi esterni’ connessi alle
azioni di risanamento (adeguando in tal senso anche i canoni, ovvero la “tassa” che gli
utilizzatori pagano per l’uso di un bene pubblico);
− investimenti sui sistemi di smaltimento delle acque di pioggia e degli scarichi, per estendere il
servizio alle utenze tutt’oggi scollegate, e migliorare le prestazioni di quelli esistenti (riducendo
gli apporti impropri di acque bianche, riducendo l’impermeabilizzazione e diffondendo l’insieme
di soluzioni note come “SUDS, Sustainable Urban Drainage Systems). Si stimano enormi
investimenti oggi necessari per ammodernare ed estendere la rete e l’impiantistica di fognatura e
depurazione in Italia, pari a circa 60 miliardi di euro;
− Creare le condizioni – attraverso una riforma del D.M.185/2003 – per favorire realmente il riuso
delle acque reflue, anche per i vantaggi economici e ambientali che possono derivare dal
recupero dei nutrienti – azoto e fosforo – in esse contenuti;
− L’integrazione delle azioni di risanamento delle acque nei programmi di gestione del territorio, in
primo luogo nei piani di gestione dei distretti idrografici e nei piani di sviluppo rurale, in quanto
fortemente interdipendenti nel raggiungimento di obiettivi di qualità dei corpi idrici fluviali,
lacustri e costieri.